Accade oggi in Europa fra Ucraina (o NATO?) e Russia, è accaduto negli anni ’90 a pochi chilometri dai confini italiani nella ex Jugoslavia, imperversa in tante parti del mondo. I conflitti armati provocano morti e fame, fanno “ingrassare” i portafogli di tutte le organizzazioni malavitose con il traffico di esseri umani e la vendita di armi. Da più di un ventennio ormai, politica e potere imperante fomentano e abusano della “cultura della sicurezza” applicandola in ogni ambito: confini, conflitti etnici, immigrazioni, crisi economiche, o banalmente anche per il cosiddetto ordine pubblico. Si interviene, per ogni tipo di conflitto, con l’uso della forza, delle armi, dei manganelli, ma anche con la vigilanza armata.

La deriva securitaria non ha risparmiato nemmeno Bologna dal 2004. Anche “da noi”, che non siamo un paese in guerra o di “frontiera”, la risposta con la violenza (o il ricorso alle armi) è diventata l’unica reazione a qualsiasi tipo di conflitto, grande o piccolo che sia.

Tralasciamo i grandi conflitti armati che sistematicamente avvengono nel mondo, oggi anche in Europa, e poniamo attenzione al piccolo universo delle Università italiane che non vivono in contesti emergenziali tali da dover giustificare un ricorso a forme di “autodifesa” privata.

Le finalità e le modalità di azione di un Ateneo dovrebbero tendere alla gestione e alla risoluzione dei conflitti secondo principi etici e solidaristici, senza cedere alla filosofia “machista” del mostrare i “muscoli” ad ogni occasione per garantire l’ordine pubblico.

Scegliere di scivolare verso un modello culturale che facilita il ricorso ai “servizi privati armati” dentro le varie strutture nel corso delle varie attività istituzionali è stato troppo facile e semplicistico. È stato come dichiarare di accettare una logica dello scontro diffuso; scontro anche psicologico, che entra nella testa di tutti e fa apparire tutto ciò come una nuova normalità, con la possibilità che il livello di tale scontro si alzi e aggravi, indipendentemente dal presunto o reale pericolo. Non possiamo accettare che a scegliere queste logiche di “armamento” sia un luogo accademico. Un luogo in cui ci si dovrebbe adoperare per eliminare muri e barriere e per creare una cultura di pace e dialogo che contrasta l’idea di scontro.

Se proprio riteniamo che le persone che lavorano e gli spazi dell’Ateneo vadano tutelate/i dall’esuberanza degli studenti, ovvero dalle intemperanze degli “ultimi” della società, allora dobbiamo pretendere almeno una risposta consona alla storia e alla cultura accademica di questo Ateneo.

Non accettiamo – passivamente – che l’unica risposta sia quella di spendere montagne di soldi pubblici per esternalizzare servizi di vigilanza armata. Siamo disponibili a discuterne e studiare soluzioni, come l’introduzione di un servizio interno di facilitatori civici, opportunamente formati.

Siamo inoltre consapevoli che esistono altre forme di violenza come quella psicologica (che subiscono alcuni lavoratori). Molto più subdola, meno “decifrabile”, ma non meno pericolosa. Anche su questo siamo sempre disponibili ad un dialogo costruttivo nell’interesse collettivo.

Pur comprendendo le esigenze di molti colleghi rispetto ad una situazione che è degenerata negli anni a causa dell’incompetenza e dell’incuria di chi aveva il dovere di affrontare e risolvere i problemi, non possiamo accettare l’idea che questa esigenza di sicurezza si istituzionalizzi tramite contratti con istituti di vigilanza privata (che spesso sono le stesse cooperative che offrono i servizi di portierato).

Tutto questo va affrontato in forma condivisa, con un approccio etico ed umano dialogando con le rappresentanze istituzionali dei lavoratori proprio per affrontare le legittime istanze quotidiane delle persone.

Se passa il fatto di proteggere una laurea con le armi, allo stesso modo, essendo chiaro che ovunque e in qualunque momento qualcosa potrebbe sempre accadere, allora tutti gli spazi della nostra vita (pubblica e anche privata) potrebbero allargarsi a questa idea di “autodifesa personale/istituzionale” fino ai parchi dove giocano i bambini.

La guerra è puro business, così la produzione e la vendita di armi. E tale business deve essere alimentato facendo sparare quelle armi. E chi pagherà i “danni collaterali” (a tutto tondo) di questa idea imperante e soggiogante? Quanto riteniamo noi, come centro di vita accademia e di cultura, di avvallare questa deriva? Quanto possiamo contribuire a creare la circolazione di una idea meno ammorbata di muscolarità? Quanto possiamo spingere le nostre azioni in direzione di una nuova coscienza e per l’assunzione di responsabilità collettiva? Sono domande per lei Magnifico Rettore, sono domande per tutti.

Dato il particolare momento che viviamo, riteniamo necessario chiedere al Prof. Molari se condivide l’idea di Università portata avanti dal suo predecessore. Se condivide e approva questa idea di “imbarbarimento armato”, questo modello sociale tensivo e ansiogeno, oppure ritiene necessario un cambio di rotta che vada verso l’abbandono di questa cultura difensivista e “para-militare” e verso una idea di abbassamento dei toni sociali, piuttosto che il suo contrario?