Mentre nel settore metalmeccanico il nuovo CCNL porta un aumento medio di 205 euro (anche poco!), nel pubblico impiego gli ultimi rinnovi hanno prodotto un risultato ben diverso: un arretramento mascherato, ma presentato come progresso.
Lo abbiamo detto più volte: gli incrementi salariali coprono appena un terzo dell’inflazione e, una volta considerata la tassazione, il bilancio diventa ancora più amaro (vedi comunicati).
In altre parole, questa tornata contrattuale non è stata solo sprecata: diventerà inevitabilmente in un vero e proprio passo indietro.
Dal 2022 percepiamo in modo sempre più acuto la gravità di quello che oggi è un fatto accertato: il nostro lavoro non ci consente più di vivere dignitosamente.
Firmare, proprio per il 2022–2024, un contratto che – alla fine dei conti – sottrae salario significa azzerare qualsiasi speranza anche per il prossimo triennio. È come ritrovarsi su una barca che fa acqua da tutte le parti mentre qualcuno insiste a dire che “l’orizzonte è sereno”: puoi remare quanto vuoi, ma così non si arriva lontano.
Clicca qui per approfondire questo tema, ascoltando le interviste ad alcune delegate della CUB Scuola, Sanità e Pubblico Impiego, che raccontano con grande chiarezza cosa significhi vivere ogni giorno questo arretramento.
Difendere il lavoro pubblico
Si ripete spesso – e giustamente – che difendere il lavoro pubblico significa preservare i servizi pubblici: proteggere scuole e università dove crescono le nuove generazioni, gli ospedali che curano chi non ha alternative, gli uffici che garantiscono diritti e ascolto. Tutto questo è possibile solo se tuteliamo il nostro lavoro, anche nei confronti della contrattazione nazionale che continua a impoverirci.
Quando qualcuno ci dice che “il nostro lavoro non conta”, o quando anche noi rischiamo di convincerci che “tanto non cambia niente”, dobbiamo ricordarlo con forza: se cade il lavoro pubblico, cadono i diritti di tutte/i.
Responsabilità e memoria
C’è un punto che non può essere cancellato con un colpo di spugna: se quei sindacati pronti a sottoscrivere tutto, togliessero la propria firma dagli accordi che imbrigliano gli scioperi nei servizi essenziali, basterebbe una settimana di blocco totale per ottenere ciò che ci è dovuto.
Per questo non crediamo alle proclamazioni tardive. Non perché vogliamo dividerci – sappiamo bene quanto la divisione abbia danneggiato tutte e tutti – ma perché non possiamo fingere di dimenticare chi ha limitato il diritto di sciopero (CGIL, CISL, UIL), e chi, negli ultimi dieci anni, dopo un illegittimo blocco contrattuale – che ancora pesa sui nostri stipendi per circa 500 euro ogni mese – ha firmato uno dopo l’altro e senza esitazione tutti i contratti del pubblico impiego.
Ricordiamo che, proprio in un contesto così fragile, dividere le mobilitazioni significa lasciare che tutto questo continui indisturbato e per questo avevamo accreditato come possibile (memento 3 ottobre!) l’adesione dei sindacati maggioritari allo sciopero del sindacalismo di base (vedi link), così come invece avevano fatti i sindacati di base a novembre 2024.
Da tempo diciamo che la contrattazione nazionale, ormai desertificata, è diventata lo strumento attraverso il quale si certifica l’impoverimento strutturale del lavoro pubblico. E lo stesso vale per la contrattazione integrativa, sempre a perdere, nei singoli posti di lavoro. Un modello subalterno, in perdita, che non tutela né potere d’acquisto né dignità personale e professionale.
Una scelta politica
Ciò che viviamo oggi non è né un errore né una svista tecnica: è il risultato di scelte politiche che da anni indeboliscono salari, diritti e servizi. Scelte fatte e firmate anche da quei sindacati che, oggi, si presentano (loro stessi poco convintamente) come oppositori mentre per anni hanno sottoscritto contratti, intese e accordi con governi di tutti i colori.
Eppure, un’alternativa esiste…
Esiste ogni volta che lavoratrici e lavoratori rifiutano il ricatto della rinuncia.
Esiste ogni volta che si sceglie la mobilitazione, la partecipazione.
