La CRUI, per sua natura, non può essere considerata portavoce dell’intero sistema universitario nazionale. La sua composizione – un consesso di Rettori – riflette soltanto una delle molteplici anime dell’università. Pretendere che essa esprima la voce complessiva degli Atenei italiani è po’ come chiedere al timoniere di parlare per tutti i marinai: può descrivere la rotta, ma non può sostituirsi alle esperienze, alle fatiche e ai diritti di chi naviga ogni giorno.

In molti Paesi questa distinzione è chiara. In Francia, ad esempio, le conferenze dei Presidenti d’università dialogano con sindacati accademici e organismi rappresentativi del personale prima di avanzare proposte di riforma; in Germania, il potere della Hochschulrektorenkonferenz non è mai confuso con quello dei consigli accademici, dei senati universitari o dei sindacati di categoria.

Nessun sistema maturo attribuisce a un organismo dei Rettori la rappresentanza indistinta di docenti strutturati, personale tecnico-amministrativo, ricercatori precari e studentesse. Ogni componente dovrebbe infatti poter esercitare la propria dignità giuridica e contrattuale senza essere assorbito o, peggio, annullato, dalla voce dei vertici.

Per questo risulta particolarmente grave che nel dibattito odierno si continui a interpretare la posizione della CRUI come quella dell’intera comunità universitaria. Chi rischia il posto, chi è sospeso da anni in un purgatorio di contratti rinnovati e poi svaniti, chi sostiene la ricerca senza certezze né riconoscimento, non ha ancora una rappresentanza stabile ai tavoli dove si decide del suo destino. Un vuoto democratico e giuridico che nessuna riforma dovrebbe permettersi di ignorare.

Nei prossimi mesi, decine di migliaia di ricercatrici e ricercatori verranno espulsi dagli Atenei. Questa parola è dura, ma necessaria: “espulsione”. Non si tratta di una naturale scadenza di percorsi formativi, ma della perdita improvvisa e definitiva di un ruolo che, per molti, coincide con anni di vita dedicati alla ricerca. Siamo di fronte a un momento storico in cui è possibile – forse per l’ultima volta – affermare che il diritto alla ricerca non può essere un privilegio contingente, bensì un elemento costitutivo dell’interesse pubblico.

Il paradosso è evidente: mentre si discute di riforme organizzative, di procedure di reclutamento e di nuovi modelli di governance, si dimentica la condizione di radicale incertezza in cui vivono decine di migliaia di assegnisti, borsisti e precari della ricerca. Chi mai ristrutturerebbe il tetto di una casa lasciando esposti alla pioggia coloro che abitano nei piani inferiori? Così, le riforme che non affrontano il problema della precarietà producono solo una facciata più elegante, ma continuano a consumare chi, giorno dopo giorno, tiene in piedi la struttura.

A questa cecità si aggiunge la mancata risposta alle criticità che investono il personale tecnico-amministrativo e di chi – spesso invisibile ma indispensabile – lavora negli Atenei italiani tramite contratti di appalto. E soprattutto non si tocca il nodo centrale: il definanziamento sistemico delle università, delle scuole, dei settori della cultura e dello spettacolo. Quando le risorse pubbliche si contraggono, avanzano soggetti privati, spesso industrie o fondazioni collegate a grandi gruppi industriali che hanno interessi propri ad intervenire nella didattica, tramite collaborazioni con i Corsi di studio, compresi i tirocini obbligatori, così come nella ricerca, dal dottorato industriale ai progetti vincolati a temi specifici. Si presentano come mecenati, ma il mecenatismo, nella storia, non è mai stato neutrale: chi porta risorse porta anche priorità, aspettative, direzioni di marcia. La libertà accademica rischia così di trasformarsi – lentamente, silenziosamente – in una libertà condizionata.

Gli effetti del definanziamento sono sotto gli occhi di tutti: tagli al diritto allo studio, la diminuzione degli spazi collettivi come le aule studio, appalti al ribasso nell’ambito delle manutenzioni e dei servizi, quali ad esempio le pulizie e portierato, che compromettono il benessere e la tutela di chi studia e lavora negli Atenei, comprimendo salari e diritti dei lavoratori esternalizzati.

L’università è un organismo complesso e quando si riduce l’alimentazione a uno dei suoi organi, l’intero corpo ne soffre.

Non è più accettabile il perpetuarsi di un’oligarchia. E non basta ridefinire il ruolo dei Rettori o del Consiglio di Amministrazione per dare forza e incisività alle università italiane: è necessario riconoscere la pluralità delle figure che compongono il suo tessuto vitale. Perché una comunità funziona solo se ogni parte è ascoltata secondo la propria funzione, non se tutto viene deciso da un vertice.

Dalla stagione inaugurata dalla Legge Gelmini alle attuali alchimie di potere che regolano gli organi accademici, la tendenza è stata sempre la stessa: ridurre gli spazi democratici e accrescere la distanza tra chi governa e chi lavora.

Ogni riforma sembra aver consolidato, più o meno consapevolmente, le stesse alleanze tra accademia e mondo privato, lasciando irrisolto il problema cruciale: l’assenza di un piano organico per la stabilizzazione della ricerca. La discussione sui concorsi nazionali o locali è solo un artificio retorico. La verità è semplice: i concorsi sono troppo pochi e l’università italiana è diventata un sistema che si regge su migliaia di lavoratori invisibili. Non manca il talento, non manca la dedizione: manca la volontà politica di riconoscerli.

Per invertire questa deriva sarebbe necessario un bando straordinario di almeno 45.000 posti (e altrettanti posti per TA), accompagnato dall’eliminazione delle attuali figure precarie e dalla proroga dei fondi e delle borse. Non è un lusso, non è un’utopia: è la soglia minima per evitare il collasso di un sistema che vive grazie a chi non è riconosciuto.

Siamo in sostanza a un bivio. Possiamo lasciare che l’università diventi sempre più un mosaico di privilegi e assenze, oppure possiamo decidere che la conoscenza è un bene pubblico e che chi la produce ha diritto a un futuro. È il momento di scegliere. E soprattutto di ascoltare…

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Il prossimo 28 novembre ci sarà lo Sciopero Generale. In Università sciopereremo:
– per rafforzare il boicottaggio accademico contro chi è complice dei conflitti;
– contro la più grande espulsione di massa nella storia della ricerca universitaria, con la scadenza di migliaia di contratti precari;
– contro le nuove direttive governative che vogliono disciplinare gli Atenei.

 

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